Piove. Intorno a noi un panorama campestre, la nebbia uggiosa e i soliti cumuli di rifiuti. Incontriamo poche persone e solo qualche gallina che razzola lunga la strada.Una macchina sospetta ci segue. Ci sorpassa e accosta. Ci lascia superarla, e nuovamente riprende la sua lenta corsa dietro di noi. Tutto questo si ripete più volte. L’autista è intento a chiamare qualcuno al telefono e gesticola, indicandoci.
E nel frattempo iniziamo a fantasticare sul finale: una banda che ci rapisce, un giornalista che vuole intervistarci, un pettegolo desideroso semplicemente di sapere dove stiamo andando.
Dopo circa 5 km vediamo l’auto allontanarsi velocemente, e la perdiamo di vista, dietro ad una curva.
Ok, bene. Tutto bene quello che finisce bene, pensiamo. Nessun finale tragico. Riprendiamo a pedalare, tirando un sospiro di sollievo.
Non facciamo in tempo a finire di farci una risata che vediamo arrivare in lontananza, a gran velocità, un’auto della polizia. Intercetta il nostro percorso, ci blocca la strada e ci costringe a fermarci. Sembrava che stessero proprio cercando noi.
Accostiamo. Non gli interessano i documenti e non gli interessano neanche le nostre facce incredule. Vogliono solo caricare le nostre biciclette e portarci alla stazione di polizia più vicina.
Chiediamo spiegazioni ma sono restii nel darcele. Vogliamo sapere, altrimenti opponiamo resistenza. E così ci informano che siamo in una presunta zona militare, una zona “off limit” per gli stranieri. Devono ispezionare i nostri dispositivi elettronici per assicurarsi che non siamo delle spie.
Li seguiamo, ora un po’ più tranquilli e incuriositi di sapere come andrà a finire. Arriviamo alla stazione di polizia e ci sequestrano i cellulari e la fotocamera. Trovano ben poco: panorami nebbiosi, alberi, quanche scimmietta, un piatto di riso un po’ sbiadito, Andrea e la sua nuova berretta. Forse delusi ma soddisfatti del loro controllo, ci riconsegnano le nostre cose e ci dicono che non possiamo stare lì: ci scorteranno fino alla “open zone”.
Non siamo per niente contenti di barattare un giro sull’auto della polizia, con la nostra libertà e la voglia di pedalare, nonostante l’incessante pioggia.
Dopo quasi 90 km – oltretutto non proprio sulla stessa direzione del percorso che ci eravamo prefissati di fare – ci fermiamo. Siamo nel mezzo del nulla, contornati dalle montagne, e ormai è quasi buio. Ci dicono che possiamo scendere e procedere in autonomia, in bicicletta, perché tanto ormai siamo fuori dalla zona “off limit”. Non possono accompagnarci oltre perché da lì in poi finisce anche la loro giurisdizione.
Cerchiamo di spiegargli il nostro disappunto, il nostro disagio, facendogli vedere sul navigatore che la località più vicina si trova ad una ventina di km, e che su queste strade ci sarebbero volute circa due ore di pedalata.
Non possono farci nulla, dicono, questi sono i loro ordini. Oh sì che potete fare qualcosa invece, pensiamo noi. E arriviamo a minacciarli di chiamare l’Ambasciata e di denunciare il loro modo di fare, insensibile e supponente.
È bastata questa frase e si sono subito attivati facendo una chiamata al loro superiore, per nuove disposizioni.
E da un “vi lasciamo qui, nel mezzo del nulla” ad altri 30 km oltre la loro giurisdizione e un bel “siete arrivati, questo è l’hotel”.
Un’altra avventura dal sapore amaro, qui in Cina, finita bene.
Ciò che è fatto è fatto, quando noi diciamo che è fatto
Cit. dal film Mission Impossible 🤘😎🔝